Il Museo di Storia Naturale di Livorno a domicilio. In collaborazione con Coop Itinera. A casa giocando s’impara: I modelli in carta del Musmed “costruiamo un rapace” Attività per bambini e ragazzi dai 7 ai 12 anni
Nuovo appuntamento della rubrica “A casa… Giocando s’impara” promossa dal Museo di Storia Naturale di Livorno in collaborazione con coop.Itinera. Questa volta faremo un viaggio dietro le quinte del Museo: andremo infatti nel laboratorio di Iuri Simoncini, istruttore tassidermista del museo, che ci parlerà della sua originale tecnica di costruzione di modelli di uccelli “in carta” e ci mostrerà alcune fasi della realizzazione di uno spettacolare modello di Condor delle Ande. A seguire una divertente attività di laboratorio nella quale verrà mostrato come è possibile costruire un piccolo falchetto in carta. Un ringraziamento allo staff scientifico del Museo: Ambra, Emanuela, Marco, Alice ed Annalisa.
Nel contesto generale delle tipologie architettoniche la Villa storicamente si sviluppa in epoca rinascimentale contestualmente alla riscoperta della natura. In questo senso il modello della villa toscana, assai diffusa sui colli fiorentini, si afferma come un prototipo da emulare con caratteristiche precise e ben definite. La villa è infatti di solito impostata come una struttura a blocco a pianta quadrata, con due piani fuori terra ed un portico centrale rivestito in bugnato. Nel contesto generale delle ville toscane, Livorno si presenta come un caso unico e molto originale presentando una estrema varietà e ricchezza di tipologie architettoniche in virtù della diversità dei suoi paesaggi. La vera moda della villa, intesa come residenza signorile, per coltivare gli ozi, nasce a Livorno con l’800 grazie allo sviluppo della città come capitale delle bagnature estive e all’iniziativa di famiglie benestanti che cominciano a spostare le residenze dal centro verso la costa fino alle colline vicine. Località come Montenero, Monterotondo, insieme ai nuovi abitati formatisi lungo il litorale tra Ardenza e Antignano, divengono così luoghi privilegiati dove vivere in serenità ed armonia con la natura e al tempo stesso fare sfoggio delle proprie ricchezze. La testimonianza più significativa di questo primo sviluppo della “Villa livornese” si legge direttamente sul territorio, lungo la Via dell’Ambrogiana, che dal 1582 ha mantenuto pressoché inalterato il suo percorso. Le residenze signorili vanno ad inserirsi in questo tessuto già parzialmente occupato da ville padronali con ampi poderi, mantenendo l’aspetto della casa padronale di campagna. Del tutto nuova e diversa è invece la “Villa al mare”, nata ad esclusivo scopo di villeggiatura per coltivare gli ozi estivi e la moda dei bagni. I caratteri architettonici che contraddistinguono questa tipologia edilizia sono legati alle possibilità offerte dalla natura marittima del luogo su cui sorgono. Dalla proprietà scompare quasi del tutto l’architettura campestre, tipica della villa di campagna, per lasciare spazio ad ampie terrazze, panoramici “belsòl” e ariosi giardini collegati spiaggette limitrofe. La residenza marina, presenta così una struttura più libera ed aperta, in modo da garantire ai villeggianti il beneficio dell’aria salmastra, tipicamente labronica.
La carriera di Carlo Goldoni ricevette a Livorno un impulso significativo, che determinò il suo futuro come commediografo e padre del teatro moderno: era il 1747, ed egli si recò nella città labronica dalla vicina Pisa, dove da poco si era trasferito per professare l’avvocatura. Il capocomico Girolamo Medebach lo aveva invitato ad assistere alla messa in scena di due delle sue opere allo Stanzone delle Commedie. Il teatro, situato dietro piazza Colonella, nella zona del porto, era già attivo dalla metà del Seicento: con forma a “U” e tre ordini di palchi suddivisi in 41 “stanzini”, fu il primo teatro di Livorno. L’esterno era semplice così come l’interno, il quale subì nel tempo varie trasformazioni, fino ad avere, nel 1758, 87 palchetti. Andarono in scena la Griselda e La Donna di garbo; quest’ultima, scritta nel 1742, aveva debuttato a Venezia. Pur non avendo mai lasciato il teatro, fu la visione dell’allestimento di queste sue opere e l’incontro con Medebach, il quale gli offrì un contratto come scrittore della compagnia, a far sì che Goldoni abbandonasse l’avvocatura per dedicarsi esclusivamente al teatro. La compagnia si trasferì stabilmente a Venezia, al teatro Sant’Angelo, portandosi dietro Goldoni: fra il 1748 e il 1753 egli scrisse ben 8 commedie, tra le quali L’uomo prudente, La vedova scaltra e L’erede fortunata. La collaborazione con Medebach proseguì anche nella fase matura della sua produzione che lo portò a riformare il teatro a partire dall’opera Il teatro comico. Il ricordo di Livorno rimase per Goldoni indelebile, come è scritto nella sua autobiografia Mémories (1787). Quando compose La bottega del caffè, nel 1750, era ancora viva in lui l’immagine delle botteghe di via Ferdinanda. E La trilogia della Villeggiatura per il Teatro San Luca di Venezia, scelse di ambientarla a Livorno. Non è un caso, dunque che il più importante teatro della città sia intitolato proprio a Carlo Goldoni, ma questa è un’altra storia.
Per rileggere La Trilogia della Villeggiatura: http://www.letteraturaitaliana.net/pdf/Volume_7/t176.pdf
BIBLIOGRAFIA
Burdick, Il Teatro, Mondadori 1978
Molinari Cesare, Il teatro: repertorio dalle origini a oggi, Mondadori 1982
Errico C., Montanelli M., Impresari, teatri e teatranti nella Livorno medicea, Livorno 2018
Uno degli impulsi che ha forgiato lo spirito democratico e libertario del popolo livornese è rappresentato dall’influenza dell’occupazione militare francese alla fine del XVIII sec. Nonostante il danno economico, infatti l’occupazione francese incontrò il favore della comunità israelitica che all’epoca costituiva il 10 per cento della popolazione livornese. I rapporti tra i due soggetti favorirono lo sviluppo di relazioni commerciali vantaggiose; gli israeliani potevano usufruire di alcuni nuovi diritti civili quali la partecipazione al governo cittadino e l’appartenenza alla Guardia Nazionale. Tali rapporti amichevoli aumentarono l’avversione antisemita in certi strati cattolici, che accomunavano le qualifiche di “ebreo” e di “giacobino” in un’unica deplorazione. La permanenza dei francesi provocò lo sviluppo di un partito repubblicano al quale aderirono, oltre agli israelitici, anche molti cittadini di altre comunità e della popolazione livornese. L’istituzione della Municipalità, organo di governo di cui vennero chiamati a far parte cittadini cattolici ed israelitici, la divisione amministrativa della città in cinque quartieri, la creazione di un Circolo di istruzione pubblica, l’abolizione dei privilegi dei facchini bergamaschi e l’allargamento del diritto al lavoro dei portuali livornesi, furono i primi elementi di trasformazione in senso democratico. Grazie all’importanza marittima e strategica della città di Livorno intuita da Napoleone, il nuovo ordinamento amministrativo della Toscana comportò la divisione del territorio in tre dipartimenti: Firenze, Siena, Livorno; dove quello di Livorno, “Mediterraneo”, comprendeva anche Pisa e Volterra estendendosi su quasi tutta la fascia costiera. Nel 1799, 2500 cittadini livornesi seguirono le truppe francesi in ritirata e i soldati austriaci arrestarono 352 cittadini livornesi per “giacobinismo”, tra cui lo stampatore Tommaso Masi, l’israelita Moisè Trionfo e l’inglese Stuard. Ma il ritorno a Livorno dei francesi tra il 1807 e il 1813 e l’aumento degli emigrati corsi e francesi favorì lo sviluppo di società segrete di ispirazione buonarrotiana e sansimonina, che dettero alimento democratico alla lotta risorgimentale, di cui uno dei principali frutti fu la nascita del nuovo periodico: L’Indicatore Livornese”.
In occasione della domenica pasquale, parleremo delle galline livornesi, ormai uno dei simboli del Museo e fra le attrazioni preferite dai visitatori di Villa Henderson dove si trova una vera e propria Casa delle galline livornesi. Ascoltiamo dalla voce di Marco la storia di questa particolare e pregiata razza toscana di galline ovaiole. A seguire, assieme ad Emanuela costruiremo con semplici materiali un vero e proprio nido dove poter mettere al sicuro le nostre uova pasquali in attesa del momento giusto per aprirle!
Lavandaie e acquaiole, due mestieri che le donne di Livorno hanno svolto per moltissimo tempo, dando un contributo fondamentale alla sana condotta quotidiana legata all’acqua, elemento primario di benessere, salute e igiene, soprattutto in tempo di epidemie. Il loro lavoro umile non è mai passato inosservato, rimanendo impresso nell’immaginario e persino in qualche locuzione linguistica. Il detto Viaggio d’acqua indicava il trasporto di barili della capacità di 40 litri che dai carretti venivano trasportati a mano su per le scale o fino ai portoni delle case dalle acquaiole, per portare acqua pulita nelle case, prive di ogni impianto idrico. Uno dei mestieri più faticosi tra quelli femminili, le acquaiole donne vigorose, risolute e spesso rissose che facilmente potevano azzuffarsi intorno alle fontane per questioni di precedenza a colpi di zoccoli e grida. Una bella incisione ottocentesca ritrae un gruppo di donne accapigliate intorno al Monumento a Ferdinando I, detto dei Quattro Mori. Un altro mestiere dell’acqua era quello delle lavandaie riservato esclusivamente alle donne, spesso alle orfane e trovatelle, associato in molti casi a quello delle levatrici. A Livorno esistevano 52 lavatoi pubblici, quelli più noti, andati distrutti nell’ultima guerra, si trovavano nei pressi della Fortezza Nuova in una strada detta Via dei Lavatoi, così come nei pressi del Cisternone dove esiste ancora oggi il Vicolo delle Lavandaie.
«La gran sera era finalmente venuta. Gli affreschi delle pareti e delle volte nel Caffè erano ormai compiuti, i pannelli erano stati attaccati, con le loro cornici, ai pilastri. Tutto intorno era un gran luccicare di vernice fresca», così Ettore Serra descrive l’inaugurazione, nel 1911, della sala del Caffè Bardi con le opere degli artisti del “cantuccio di sinistra”: Romiti, Natali, Benvenuti, Michelozzi, Mario Puccini, Gastone Razzaguta, trasformarono la sala del Caffè Bardi in una esposizione permanente di arte labronica, il manifesto artistico dei successori di Giovanni Fattori. Nel Palazzo Taddeoli all’angolo fra via Cairoli e via Cavour, già di pasticceri svizzeri, il locale, rilevato nel 1908 da Ugo Bardi, fu ritrovo per artisti e letterati. A pochi passi dalla “spalletta” dei Fossi dove gli artisti amavano sostare, divenne un vero e proprio porto di mare dove non era raro incontrare il compositore Pietro Mascagni, il commediografo Dario Niccodemi o Amedeo Modigliani. In questo locale nacque il dibattito sugli sviluppi culturali della città: dal progetto di una Casa dell’Arte con sede al Cisternino, alla guida di Livorno, alla redazione della rivista estiva “Niente Dazio?”. Quando, nel 1920, morì Mario Puccini gli artisti della branca si mobilitarono per chiedere l’inumazione nel Famedio di Montenero per colui che consideravano il vero erede di Fattori, e, scontrandosi con gli altri componenti della Federazione Artistica Livornese, si costituirono in un gruppo: il tempo del Caffè Bardi volgeva a termine ma una nuova stagione artistica si apriva con il Gruppo Labronico, fondato dai “pucciniani” il 15 luglio 1920. Nel 1921 il palazzo del Caffè Bardi venne acquistato dal Banco di Roma, il locale chiuse per sempre e tutti gli arredi e gli oggetti artistici furono venduti all’asta.
BIBLIOGRAFIA
Serra Ettore, Vita di giovine artista, Livorno : Belforte, 1913
Pierleoni Michele, Mario Puccini al Caffè Bardi, incontri artistici e culturali nella Livorno di inizio Novecento, in Il Caffè Bardi di Livorno (1909 – 1921) le arti all’incontro, Bandecchi e Vivaldi, Pontedera 2008
La storia della Torre Nuova, detta poi del Marzocco, ci porta indietro nel tempo fino al XV secolo, a quando la costa labronica era scenario di battaglie e l’antico Porto Pisano – conteso per la sua strategica posizione – si stava ormai interrando. Fu edificata dalla Repubblica fiorentina dopo che questa aveva acquistato Livorno dai genovesi, detentori del potere sul porto toscano dal 1407 fino al 1421. Costruita sui resti dell’antica Torre Rossa, si suppone che il progetto appartenesse al celebre scultore e architetto Lorenzo Ghiberti secondo la testimonianza riportata da G. T. Tozzetti, il quale trova somiglianze tra un disegno del Ghiberti e il Marzocco. Anche se la paternità del progetto non è confermata, resta affascinante il suo forte legame con la celebre Torre dei Venti di Atene. Evidenti sono le analogie con la torre ateniese: entrambe a pianta ottagonale rivestite di marmo bianco presentano sulle otto facce marmoree i venti scolpiti in bassorilievo, formando un bellissimo fregio, mentre in cima alla cuspide era fissata una banderuola che ruotava in base al vento. Il nome Marzocco deriva proprio dalla forma della sua antica banderuola: un leone rampante di rame dorato, perduto nel 1737 a causa di un fulmine. Oggi la torre non è visitabile al suo interno ed è inglobata nel complesso del porto industriale, ma la sua imponente bellezza viene citata da molti cronisti ed elogiata da sempre come uno tra i monumenti simbolo della città labronica.
BIBLIOGRAFIA
G. Targioni Tozzetti, Relazione di alcuni viaggi fatti in diverse parti della Toscana, Firenze 1751
Francesco Guicciardini, Istoria d’Italia di Francesco Guicciardini, Firenze 1803
Il Museo di Storia Naturale di Livorno a domicilio. In collaborazione con Coop Itinera. “A casa giocando s’impara”: nell’orto tra ninfee e arte Attività per bambini dai 5 ai 10 anni
Proseguono gli appuntamenti per bambini nell’ambito della rubrica on line A casa giocando s’impara. Domenica 5 aprile faremo una passeggiata nell’orto del Museo di Storia Naturale andando a scoprire alcune piante tipiche dell’area Mediterranea ed in particolare la più curiosa, la ninfea, l’elegante e raffinata pianta acquatica, che ha ispirato tra l’altro molti quadri del celebre pittore impressionista Claude Monet. I suoi quadri saranno il punto di partenza per realizzare insieme una vera e propria opera d’arte ispirata alle sue famosissime Ninfee. Ci accompagneranno in questo percorso Silvia e Valeria.
Alla fine dell’800 in Italia, il mestiere di birraio era svolto da pochissimi imprenditori vista la dominante cultura vinicola. Ancora di più lo era in regioni come il Piemonte, patria di vini pregiati. Forse questo fu il motivo che indusse il giovane Giuseppe De Giacomi a trasferirsi a Livorno e rilevare, nel 1892, la vecchia Birreria Kieffer. A quella data si trattava di un piccolo laboratorio artigiano con annesso locale per il consumo posto nel quadrilatero formato dalla Via Mentana, Via de Lardarel, Via Sproni e Via Chiellini. Da qui ha inizio la storia della fabbrica di Birra De Giacomi che ebbe un grande sviluppo fino al 1939, anno in cui l’intero complesso fu acquisito dalla Società Birra Peroni. Per la produzione della birra si utilizzava l’acqua che si trovava in abbondanza proprio sotto lo stabilimento, canalizzandola direttamente dalla sorgente agli impianti produttivi. Gli anni della guerra si abbatterono sugli impianti in maniera devastante danneggiando gli edifici produttivi che furono ricostruiti e ampliati riprendendo la corsa produttiva fino a raggiungere i 70.000 ettolitri nel 1963. L’emergere di stabilimenti più all’avanguardia e l’ubicazione dell’impianto nel centro città unitamente all’impossibilità di poter ampliare le unità produttive determinò il lento declino della Birreria livornese, che chiuse i battenti nel 1979, lasciando un segno forte e indelebile nella storia e nella cultura della città.