- Ambra Fiorini -
Nei secoli passati, Livorno è stata luogo di raccolta e residenza di persone provenienti da diverse nazioni ed è proprio qui che una festa molto sentita come il Carnevale ha assunto un aspetto del tutto peculiare. I festeggiamenti coinvolgevano principalmente le classi sociali di ceto medio basso oltre che gli equipaggi delle navi straniere che, proprio nel periodo carnevalesco, arrivavano numerose in porto. Qualunque giorno e qualsiasi notte diventavano un’occasione per festeggiare con balli, danze, giochi e rappresentazioni teatrali; mentre i banchetti si trasformavano in un vero e proprio rito collettivo, al punto che cibo e mangiate costituivano l’elemento fondante del Carnevale livornese.
In questi giorni di festa le maschere imperversavano: parodie di personaggi illustri, imitazioni di famosi poeti e maschere collettive oltre quelle caratteristiche della città come “la divinità marina”, “la puce” o “i mori”.
La più antica e caratteristica maschera cittadina era probabilmente quella del pescatore chiamato dai livornesi “Mangia uno-mangia due”. I suoi attributi erano un camiciotto corto, marrone e arruffato, un cappuccio appuntito e una canna da pesca alla quale venivano appese delle roschette a mo’ di esca: le persone dovevano tentare di rubarle al pescatore senza usare le mani, afferrandole con la bocca come fanno i pesci.
Durante i corsi mascherati dei carri, che si svolgevano nella via Grande, il popolo si cimentava nella diffusa pratica del lancio dei confetti. Ma se in altre città si era soliti usare confetti di gesso o piselli, nella ricca Livorno le praline erano proprio di zucchero: un segno di abbondanza e, al tempo stesso, di approvazione tangibile verso la rappresentazione carnevalesca.
Purtroppo la crisi che investì tutta la città alla fine del XIX secolo non risparmiò nemmeno il rumoroso carnevale livornese che progressivamente andò ridimensionandosi fino a diventare, nel corso del ‘900, soltanto un lontano ricordo.